Lo sguardo del cuore

di Luca Pini

Sabato, alla Coppa Italia in terra marchigiana, ho giocato poche partite, ne ho arbitrate di più e ne ho guardate tante. Una mi è rimasta addosso.

Ho conosciuto Lorenzo quando era davvero piccolo e da subito mi colpirono i suoi occhi: scuri, grandi, come il cielo di notte. Inseguivano il babbo come un segugio insegue la sua preda ma quando erano al sicuro, dentro al loro perimetro, guardavano curiosi. Oltre.

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Non sapeva niente di questo mondo fatto di omini piccolissimi imprigionati su fantomatiche basi dalle qualità balistiche fantascientifiche. Tantomeno poteva rendersi conto che sarebbe diventato uno dei suoi mondi. Uso il plurale perché nel mio non conoscerlo posso solo immaginare quanti mondi stia sognando e quanti ne stia vivendo. Scrivo perché ne ho visto uno, che è anche uno dei miei mondi. Come tutti i suoi coetanei ne è la quintessenza. Per i ragazzi a cui è stato tracciato un sentiero pulito, onesto, è ancora un gioco e, di questo, ne fanno un punto di forza. Scevri delle malizie tipiche degli adulti, dal concetto di vittoria a tutti i costi, segno distintivo della frustrazione dei “grandi”, diventa una sinfonia il vederli giocare.

Quello che mi ha colpito, che mi ha emozionato, sono stati quei due fari neri sempre concentrati sul gioco, in perfetta sincronia con le mani e il cervello ma che, ogni tanto, si prendevano la licenza di cercare qualcosa al di fuori del panno verde. Cercavano un’àncora, un appiglio, o forse solo un gesto di approvazione o di incoraggiamento. Sapevano perfettamente quando farlo. Lo sguardo si alzava non per riempire il proprio ego, non dopo un gesto fatto bene o un aggancio perfetto. Quello non aveva bisogno di altro, sapevano perfettamente di aver fatto la cosa giusta. Cercavano complicità nel fallimento. Cercavano altri occhi che alleviassero la pesantezza dell’errore. Un linguaggio del corpo meraviglioso, senza mai acuti di disapprovazione. Il continuo, incessante rimboccarsi le maniche del minatore, di colui che sa che per riparare all’errore occorre uno sforzo doppio in direzione contraria.
Questi occhi altri, non sono mai mancati. Qualsiasi potesse essere la traiettoria distorta dei corpi sapevano che avrebbero incontrato sempre e solo gli occhi di Patrizio. Occhi concreti, decisi, a contorno di un’espressione sempre sorridente, rassicurante, ancora perfetta. Gli occhi di colui che lo ha preso per la mano e che adesso sta iniziando a lasciarla. Perché prima o poi vanno lasciate quelle mani. Va permesso l’urto. Con la consapevolezza che quando sarà per terra avrà gli strumenti per rialzarsi e continuare a correre per quel sentiero pulito, onesto anche quando non andrà incontro solo al gioco.

Lorenzo quella partita l’ha persa, ha abbassato lo sguardo per raccogliere le sue miniature e, forse, per qualche secondo ha anche cercato di capire il perché avesse perso. Un attimo, tanto così è durato, poi l’ho visto rialzare lo sguardo e cercare, in mezzo a tantissimi occhi puntati su di lui, gli unici ai quali voleva raccontare quel pensiero e l’ha fatto, l’ha fatto con un abbraccio.

Grazie Lorenzo, grazie Patrizio.

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